Si
capiva da come teneva la bottiglia tra le mani che per lui godere del vino era
come indossare un abito elegante in cui stare comodo, o ammirare un quadro d’autore
appeso alla parete più luminosa della stanza. Se la passava da una mano all’altra,
la soppesava. Leggeva tra sé l’etichetta, e la voce sussurrava parole che non
capivo, ma mi piaceva quel suono delicato all’orecchio. “Sono tanti i gradi di
questo vino” disse “ma non ti devi spaventare, ti piacerà” mi tranquillizzò.
Sollevò la bottiglia verso la luce e mi mostrò la brillantezza del colore: illuminato,
smetteva di essere un bruno opaco ed esibiva un rosso violettino da tingerci
stoffe preziose e gioielli. Di lui, Mario, io credevo di sapere tutto, lo
conoscevo dagli anni della scuola superiore. Per me era il compagno di liceo
con cui avevo scambiato un paio di baci alla fine dell’ultimo anno, e che poi
avevo perso per strada mentre ero impegnata a laurearmi, a trovare un lavoro,
specializzarmi all’estero, viaggiare, capire chi ero. Un bravo ragazzo che non
si era mai mosso dal paese, dai fornelli del ristorante di famiglia. Ma da lui
i clienti tornavano spesso per assaggiare i piatti di pesce o di carne e i suoi
dolci speciali. Della sua cucina, seppi poi, apprezzavano tutto: i condimenti
delicati, l’originalità degli abbinamenti, l’arte nella presentazione dei
piatti. Lui, che del mondo non aveva fatto esperienza, era un universo sconosciuto
da esplorare, e io lo intuivo solo ora, semplicemente da come stappava quella
bottiglia.
Un
profumo per un istante ti colora la vita. Immagini e ricordi emergono da un
fondo latteo con pennellate sempre più decise. “Il sole al tramonto. Disteso su
un prato d’erba fresca” disse mentre seguiva la scia profumata fluire dal collo
della bottiglia. Me la allungò e anch’io giocai a mettere alla prova i miei
ricordi: “Parigi. Rapita dai riflessi delle vetrate, nella cattedrale di Saint
Denis” dissi per scherzo assaporando l’aria. Si stupì: quello era proprio un
vino di uve di origini francesi, e io ero stata davvero brava a indovinare. Come
ci ero riuscita? Mi sciolsi in una risata fresca come un torrente e con me
anche lui. Scivolavamo facendo cascatelle e piccole onde. Mi piaceva, mi
piaceva ogni cosa. Come se non avessi mai saputo niente, i primi passi. La
gioia ebbra di stare con una persona. D’ un colpo il vino trasformò i bicchieri
in coppe di rubini e lui mi insegnò come afferrarle e rotearle per impregnarle
di ogni fragranza. Quando mi disse di assaggiare appoggiai le labbra e
dolcemente piegai il collo all’indietro. In piccoli sorsi si sciolsero le
spalle e poi le braccia e le gambe. La testa volò via. Scambiai l’abbraccio
caldo del vino con il suo, di mani e braccia sicure sui miei fianchi, e con un
bacio che sapeva di futuro e di vita insieme. Capivo tutto, con il corpo e con
la testa, per la prima volta.
Quella
sera aveva preparato un tavolo per noi, la sera che il ristorante era chiuso e
la sala era tutta per noi, e lui soltanto per me. Cucinare per me, prendersi
cura. Lo guardavo ai fornelli che preparava una carne rossa e succosa. Perché
io avevo bisogno di sostanza e concretezza, sapori solidi e non frivolezze,
disse. E che di quella carne e del vino che avevo assaggiato ne avrebbe fatto
un tutt’uno, una cosa sola. Una cosa sola.
Gustammo insieme quel piatto, con il vino che a condimento della carne era
diventato una salsa avvolgente. Sempre di più, sorseggiando dal bicchiere quel
nettare che l’esaltava e la arricchiva di sapori e tonalità nuove. Come una
musica infinita.
Sento
ancora quella musica ogni volta che Mario cucina per me o che insieme
assaggiamo un vino che ci emoziona e lo ispira. Sono passati diversi anni da
quella cena e io continuo a vivere di scoperte e di sorprese quotidiane accanto
a lui. Ho imparato ad affidarmi, consegnarmi a lui. Perché il cibo preparato
con amore e i vini scelti con la cura di chi sa voler bene sono il più grande nutrimento
della mia vita.